C’è un problema sul web: i banner popup. Fastidiosi, invadenti, ripetitivi. Sono ovunque come i semafori nel traffico cittadino: sappiamo che ci saranno, li odiamo, ma non possiamo evitarli. Checché ne dicano gli ad-blocker.
Ogni volta che apriamo un sito, la scena è sempre la stessa. Noi arriviamo per leggere un articolo, ma dopo pochi secondi, boom: un popup a tutto schermo ci chiede di iscriverci alla newsletter. Chiudiamo. Scorriamo due righe e un altro banner con un’offerta “irripetibile” che, guarda caso, scade tra tre minuti. Ignoriamo. Continuiamo la lettura, parte il video in autoplay con il volume a palla. E come ciliegina sulla torta, il banner finale: “Non andare via! Sconto del 10% se compri nei prossimi 30 secondi.”
Tutta questa sovraesposizione pubblicitaria ha un solo effetto: il lettore scappa. I dati lo confermano. Il tasso di rimbalzo sui siti infestati dai popup è altissimo, l’esperienza utente crolla e la fiducia nel brand va a farsi benedire. Perché alla fine, quello che un utente percepisce non è un messaggio promozionale, ma un’aggressione digitale. E il risultato? Tutti chiudono i popup senza leggerli, spesso in modo automatico, trasformandoli in rumore di fondo.
Ma la cosa più ironica è che questi banner si sono moltiplicati proprio mentre l’attenzione degli utenti si è ridotta ai minimi storici. In un web sempre più veloce, frammentato e saturo di contenuti, cosa fanno i brand? Invece di semplificare, aumentano le barriere all’ingresso, costringendo chi arriva sul sito a una corsa a ostacoli tra “X” minuscole.
Il web non ha bisogno di più interruzioni, ma di meno ostacoli. I popup non informano, non convincono, non vendono. Distraggono, infastidiscono e spingono l’utente a cercare un’alternativa.
Forse è arrivato il momento di smetterla con questa ossessione per i banner invasivi e iniziare a pensare a un’esperienza che non costringa l’utente a giocare a nascondino con le “X” per poter leggere un semplice articolo.