Altro che nativi: i ragazzi camminano nel digitale come sonnambuli. E noi glielo lasciamo fare.
Ci piace dire che sono nativi digitali perché “nati con la tecnologia”. Che sono più svegli di noi. Che ci superano in tutto: velocità, destrezza, istinto. Basta guardarli usare uno smartphone per convincersi che il futuro sia già nelle loro mani. Ma il futuro non si maneggia: si capisce. E loro, semplicemente, non lo capiscono. E non è uno di quei pipponi da boomer nostalgico: io non voglio tornare negli anni ’90 fra walkman e partite di pallone in strada. Non ho mai giocato a pallone in strada. Io amo il digitale.
Essere nati nel digitale non significa comprenderlo. Anzi: spesso è proprio chi ci è cresciuto dentro a non farsi più domande. Si muovono tra app e piattaforme con gli occhi mezzi chiusi, come sonnambuli in una stanza piena di specchi deformanti. Reagiscono a stimoli invisibili.
Scorrono, cliccano, condividono, soffrono, si innamorano, litigano. Ma non sanno cosa succede sotto la superficie. Sono sonnambuli digitali, appunto. Un neologismo che ho iniziato a usare per confutare la credenza popolare sui cosiddetti digital native, in qualche modo nata dal termine coniato da Marc Prensky.
Non sanno chi gestisce i loro dati.
Non sanno che ogni scroll modifica il profilo che li rappresenta.
Non sanno che l’algoritmo non è neutro, ma un motore con un obiettivo preciso: tenerli lì, dentro, il più a lungo possibile.
Deciso dai padroni del vapore.

Ho visto tredicenni passare ore su TikTok senza sapere che stanno solo dando da mangiare a un sistema di condizionamento. Ho visto adolescenti condividere dettagli personali senza immaginare che verranno archiviati, rivenduti, riutilizzati contro di loro. Ma anche bambini. Inghiottiti, fagocitati e digeriti da macchine messe chissà dove e in quale paese.
E intanto, gli adulti? Gli insegnanti si perdono tra le impostazioni. I genitori regalano smartphone come si regalava il motorino o, peggio, la bici. Tutti parlano di “educazione digitale”, ma nessuno affronta la parte che fa davvero male: la manipolazione, il controllo, la dipendenza.
Il punto è che non sono solo i ragazzi a dormire. Siamo noi. Anche noi. Li lasciamo navigare a vista perché non abbiamo il coraggio di guardare in faccia il sistema che ci sta stritolando. Preferiamo pensare che siano “bravi con la tecnologia” piuttosto che ammettere a noi stessi che non abbiamo mai insegnato loro a difendersi. E non lo abbiamo imparato nemmeno noi.
Non dobbiamo raggiungerli.
Dobbiamo svegliarci. Prima di loro.
O continueranno a camminare nel buio. Con noi accanto, a fare lo stesso.
— Sono l’autore di Digitalogia, già Bestseller Amazon in tre categorie: ‘Social Media’, ‘Introduzione alla sociologia’ e ‘Introduzione a Internet. Se queste riflessioni vi toccano, seguitemi su LinkedIn (in italiano) e Medium (in inglese).