Quello che coglie un barista in uno sguardo, Google lo manca anche dopo mille click. Una mia riflessione sull’intuizione umana che il digitale non avrà mai.
La macchina del caffè sbuffa, le tazzine tintinnano e l’aroma del caffè riempie l’aria. Vengo in questo bar da anni, da quando ero ragazzino. Il titolare se lo ricorda. Il personale cambia, ma nel giro di qualche settimana anche i nuovi sanno già cosa prendo: macchiato con latte freddo e brioche alla marmellata. Mi accomodo al mio solito tavolino con il giornale locale Quando è dietro al bancone, il proprietario preferisce servirmi lui. Non si limita a portarmi “il solito”. Prima osserva.
Oggi mi guarda in faccia, nota il tempo fuori, dà un’occhiata all’orologio. “Un cappuccino, oggi?” chiede con un mezzo sorriso. Piove, e in qualche modo sa che in una mattina lenta e grigia come questa, potrei volere qualcosa di più caldo del mio solito macchiato. Ha ragione. Come quasi sempre. Il barista valuta tutto: il tono della mia voce quando entro, l’ora del giorno, il meteo, la mia espressione, persino il passo con cui mi muovo. Se passo alle sei di sera, non mi propone un cappuccino, mi suggerisce un Prosecco con qualche stuzzichino per l’aperitivo.
Google Ads ragiona in tutt’altro modo. Analizza le parole che ho cercato, la mia cronologia di navigazione, i segmenti demografici, i dati di remarketing. Sa che bevo caffè, quindi mi mostra pubblicità sul caffè. Ovunque. Sempre. Il barista coglie segnali nel presente. L’algoritmo si basa solo sulla memoria.
Il mio barista non mi segue per la città cercando di vendermi caffè. Se lo incrocio in centro, mi saluta con un cenno, magari una battuta, e prosegue per la sua strada. Se ci incontriamo al supermercato, chiacchieriamo come vicini. Non mi ricorda mai di passare al bar più tardi. Capisce qualcosa che la pubblicità digitale ha dimenticato: c’è un tempo e un luogo per ogni cosa.
Confrontalo con gli annunci che ti inseguono da un sito all’altro, mostrando la stessa promozione mentre leggi le notizie, controlli le email o scorri i social. Non è solo questione di tempismo sbagliato: l’algoritmo vede quasi solo la tua cronologia di click e non gli importa se questo mese sei al verde o se hai appena comprato cinque pacchi di caffè. Sa solo che rientri in un pattern e insiste. Ieri ho visto una pubblicità di piumini in pieno luglio, Netflix continua a suggerirmi thriller cupi mentre guardo cartoni con mio figlio, Spotify interrompe la mia playlist “Focus” con spot su feste del weekend.
Che tu stia festeggiando o che tu sia triste, magari per un lutto, non cambia nulla, vogliono solo il tuo click. E l’ho provato sulla mia pelle.
E non si tratta solo di pubblicità, è il modo in cui progettiamo ogni punto di contatto digitale: interfacce, percorsi utente, esperienze. Cosa può imparare il mondo digitale da questo bar di paese? Il concetto va oltre la raccolta di dati, si tratta di capire perché le persone fanno ciò che fanno, e quando hanno davvero bisogno di aiuto. Osservare prima di agire, notare lo stato attuale dell’utente, non solo i suoi schemi passati. Sta correndo attraverso l’interfaccia o si sta soffermando? La situazione cambia tutto. E poi c’è il saper non vendere: la discrezione del barista ci insegna che il marketing più efficace spesso avviene quando non stai cercando di vendere nulla. Costruisce fiducia invece di transazioni. Il risultato? Un cliente per vent’anni, non un click frustrato che installa un ad-blocker.
Il barista ha padroneggiato qualcosa con cui gli algoritmi faticano: leggere le intenzioni in tempo reale e rispondere in modo appropriato. Non è mai invadente, mai insistente. Se intuisce che ho voglia di parlare, condivide qualche notizia locale o mi chiede di amici comuni. Se capisce che voglio leggere in pace, mi serve l’ordine con un cenno e si allontana. Certo, gli algoritmi più sofisticati provano a leggere il contesto: sanno se piove, che ore sono, dove mi trovo. Ma è una pantomima. Il barista non raccoglie dati, interpreta un essere umano. Ma ciò che è davvero straordinario è che spesso anticipa bisogni che io stesso non ho ancora riconosciuto: nei giorni stressanti, mi propone un decaffeinato senza che io lo chieda, se sembro particolarmente stanco, mi consiglia qualcosa di dolce accanto al solito. Non si limita a rispondere al contesto: legge tra le righe del comportamento umano.
Questo crea qualcosa che nessun algoritmo può generare: fiducia che si accumula nel tempo.
Siamo così concentrati sulla raccolta di dati che abbiamo dimenticato la differenza tra informazione e comprensione. I dati ti dicono cosa ha cliccato una persona. Capire ti dice perché aveva bisogno di cliccarlo.
Google non mi conosce. Conosce la mia ombra.
Il bar sotto casa usa la tecnologia quando ha senso: SMS per eventi speciali, pagamenti con carta quando servono. Ma la tecnologia è al servizio della relazione con il cliente, non il contrario. L’SMS non cerca di vendermi nulla, e non c’è nessun sistema che manipola i miei desideri. Così dovrebbe essere: la tecnologia come strumento, non come padrone.
Mentre finisco il cappuccino (quello che mi ha suggerito al posto del solito), mi rendo conto che ha fatto bene a leggere il momento invece di affidarsi alla mia cronologia. A volte ciò di cui abbiamo bisogno non è ciò che vogliamo di solito. Il barista si avvicina con il conto, guarda la tazza vuota e mi chiede se ne voglio un altro. Ma qualcosa nella mia postura, forse il modo in cui piego il giornale, gli dice che sto per andare. Non insiste.
“A domani.”
I dati sono utili, ma senza interpretazione umana del contesto diventano rumore. Gli algoritmi più sofisticati al mondo possono prevedere comportamenti, ma non possono leggere una stanza.
Prevedono, ma non capiscono.
Continuiamo a costruire macchine sempre più intelligenti. Forse è il momento di ricordarci cosa significa essere umani intelligenti.
— Sono l’autore di Digitalogia, già Bestseller Amazon in tre categorie: ‘Social Media’, ‘Introduzione alla sociologia’ e ‘Introduzione a Internet. Se queste riflessioni vi toccano, seguitemi su LinkedIn (in italiano) e Medium (in inglese).
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